di FIORELLA FARINELLI

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7.000 i senza fissa dimora, neanche 3.000 i posti di accoglienza notturna. Tra il 12 e il 15% le famiglie sotto la soglia di povertà. La più alta concentrazione italiana delle procedure di sfratto. Almeno 200 – forse 2000 persone – gli insediamenti abusivi nel solo tratto urbano del Tevere. Quasi 18.000 gli anziani disabili che non ricevono nessun supporto pubblico. Povertà vecchie e nuove a cui si intreccia l’impoverimento prodotto dalla “grande crisi”. Sia pure in forma attenuata rispetto ad altre città metropolitane europee ed extraeuropee, anche Roma porta i segni di una povertà sempre più “urbanizzata” e delle nuove forme di “spazializzazione” delle povertà che le traducono in marginalità e segregazione. Processi accentuati dall’impatto dei flussi migratori che rompendo l’uniformità linguistica, culturale, religiosa dei residenti indeboliscono quella prevedibilità dei comportamenti individuali e collettivi su cui poggia l’identità di una comunità; dal progressivo indebolirsi delle forme tradizionali del welfare locale; dall’allentarsi dei legami di solidarietà sociale. Tutto ciò mette a rischio la capacità della popolazione di riconoscersi come comunità, logora la coesione sociale, apre spazi a aggressività, chiusure, tentazioni securitarie, involuzioni della cultura civica e politica. L’andamento della spesa sociale a Roma riflette l’urbanizzazione delle povertà, ma le politiche locali di contrasto della povertà e dell’esclusione non solo sono insufficienti sul piano quantitativo, sono anche poco orientate all’integrazione e poco capaci di realizzarla. La lotta alla povertà resta una politica da “barellieri” se non diventa un punto di vista influente nelle politiche di sviluppo locale, nel ridisegno urbanistico, nelle politiche abitative, nei servizi educativi, formativi, di inserimento lavorativo, nel coinvolgimento diretto dei cittadini negli interventi di aiuto e di solidarietà. Se a destra la povertà e la marginalità viene per lo più utilizzata per politiche autoritarie e securitarie, alla sinistra non possono bastare né le culture economiciste che affidano le soluzioni essenzialmente alla crescita e al lavoro né quelle del rispetto dei diritti individuali. La scommessa è ricostruire nella popolazione, senza conformismi e difensivismi, la convinzione – e l’orgoglio – di perseguire, attraverso il contrasto delle povertà e delle marginalità, l’interesse generale alla coesione sociale della comunità locale.

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